L'articolo di Giambattista Scirè pubblicato il 20 ottobre 2020 sulla rubrica/blog di "Trasparenza e Merito" sulla rivista "Micromega"
"Il dinamismo, la serietà e la competitività di una Istituzione universitaria si misurano non solo dai risultati della sua produttività nella ricerca scientifica, dal livello e dalla completezza del servizio dei corsi di insegnamento e di specializzazione che essa offre, ma anche – non lo evidenzia mai nessuno! – dai meccanismi con cui vengono elette le sue cariche e i suoi vertici. Questi aspetti sono, infatti, intrinsecamente connessi tra loro.
Stiamo parlando della cosiddetta “governance”, cioè a dire il sistema di governo degli atenei e come le istituzioni universitarie vengono regolamentate e controllate a loro volta. Ebbene, in pochi lo sanno – a parte gli addetti ai lavori ed i protagonisti diretti del mondo accademico – ma l'elezione del Rettore nell'Università italiana è assolutamente anti-democratica. Non ci credete? Provo a spiegarvi il perché.
La ragion per cui l'Università italiana risulta, da tempo, gravemente malata – come abbiamo avuto modo di dimostrare nel corso dei precedenti articoli di questa rubrica (sia in termini di qualità della ricerca scientifica, sia in termini di competitività della classe docente, selezionata mediante un sistema di reclutamento fondato su una degenerata cooptazione, mascherata da concorso pubblico, che umilia il merito e la trasparenza) – è da ricercarsi proprio nelle feudali e anacronistiche modalità di elezione, ad esempio, del Rettore dell'Ateneo.
Partiamo da un presupposto: in nessun paese del mondo l'Università è pagata da tutti i contribuenti ma è gestita da soli universitari, secondo un modello di assoluta autoreferenzialità, senza dover rendere realmente conto né a chi finanzia gli atenei (lo Stato, il Ministero) né soprattutto ai portatori di interessi pubblici molto diversi dai docenti, ovvero gli studenti e le famiglie. Allo stato attuale, tutto il potere degli atenei, sia a livello di elezione delle cariche, sia a livello di reclutamento del personale, ha origine e fine nei docenti che agiscono quindi, attraverso i gruppi di potere locali e le varie lobby disciplinari (le presunte società scientifiche), come veri predatori, come i padroni assoluti dell'Università italiana, in modo del tutto deresponsabilizzato.
Nelle altre parti del mondo, a cominciare dai più avanzati paesi europei, non è affatto così. E non è certo un caso che il livello di qualità scientifica e il grado di trasparenza delle procedure di selezione del personale sia ben più alto che in Italia (la prima posizione di un'Ateneo italiano nel ranking internazionale non riesce a raggiungere che il duecentesimo posto). Per avere una visione complessiva, si tratta infatti di guardare ai modelli stranieri per capire da dove prendere spunto per i correttivi e cosa si può e si deve migliorare per una seria ed efficace riforma, anche in Italia, del sistema di Istruzione Superiore.
Negli Stati Uniti esiste un perfetto equilibrio tra il potere dei docenti, espresso da Dipartimento e Senato Accademico, e quello politico esterno, espressione della società (studenti e famiglie, mondo del lavoro e dell'impresa), rappresentata dal “Board of trustees”. In Australia i docenti universitari non fanno parte del pubblico impiego, i concorsi non sono pubblici ed esistono le organizzazioni professionali che svolgono una funzione di controllori e di arbitri esterni rispetto alla vita universitaria. Anche in Inghilterra si è trovato un bilanciamento dei poteri interni ed esterni, garantendo la partecipazione all'elezione delle cariche di governo universitario non solo ai docenti, ma anche agli studenti, al personale non docente, ai rappresentanti dei poteri politici nazionali e locali, alle associazioni e società, agli ordini professionali. Nelle università scozzesi – sentite questa (!) – il Rettore è un rappresentante eletto nientemeno che dagli studenti, e presiede il “tribunale universitario”, un organo collegiale assimilabile a una sorta di consiglio di amministrazione. In Francia il Rettore è un funzionario ministeriale con poteri di controllo sulla vita dell'Ateneo, nominato però dal governo che sceglie tra un elenco di professori universitari candidabili secondo criteri di merito. In Svezia e in Olanda si è imboccata la strada opposta a quella italiana dell'autonomia universitaria, ma piuttosto ci si è indirizzati verso la nomina politica (ministeriale o regionale) nella convinzione che l'Università, in quanto bene pubblico, non possa essere gestito dai docenti stessi (conflitto di interessi) ma debba essere organizzato per rappresentare gli interessi dell'intera società. Si tratta – è bene sottolinearlo – di società il cui tasso di corruzione endemica della pubblica amministrazione è molto più basso rispetto al nostro. Anche in Austria esiste un generale equilibrio di fondo, perché metà dei membri dei vertici degli atenei è nominata dalla politica, cioè dal ministero, e l'altra metà dal senato accademico, cioè dai docenti.
Come ben capite, tutti questi paesi e sistemi di governance universitaria hanno deciso di prevedere meccanismi di controllo immettendo linfa vitale, cioè personalità esterne al mondo accademico, in modo da delimitarne il potere. In Italia questo, purtroppo, non accade.
Fatta questa premessa comparativa, per tornare invece al nostro Paese da dove siamo partiti, occorre mettere subito in evidenza un punto ormai chiarissimo: tutti i mali dell'attuale sistema universitario derivano dalla legge n. 210 del 1998, che poi è stata a sua volta ancora peggiorata dalla legge n. 240 del 2010, che ha dato vita a logiche sempre più corporative e spartitorie, che ha rivelato una scandalosa deriva localistica e un inarrestabile abbassamento del livello scientifico e formativo. Il meccanismo perverso che si è messo in moto è, sostanzialmente, il seguente: si sono aboliti i concorsi nazionali (che garantivano quanto meno una sorta di “equilibrio spartitorio” tra le diverse componenti del potere accademico), istituendo i concorsi locali e così facendo si è estesa a dismisura la prassi burocratica di creare posti e fare scorrimenti di carriera (con la foglia di fico dell'abilitazione scientifica nazionale, che è diventata una sorta di regolamento di conti tra bande, fatto prima del concorso locale) senza alcuna reale valutazione della necessità didattica e di ricerca o della carenza o mancanza di materie e di settori scientifico-disciplinari, ma piuttosto sulla base di un voto di scambio: concorsi in cambio del voto per amici, “discepoli” e parenti, cioè clientelismo allo stato puro. Un clientelismo che si ammanta perfino del paravento della scienza e del curriculum, dunque molto più grave.
In realtà una seria Istituzione universitaria dovrebbe ambire a bilanciare perfettamente i due concetti chiave di autonomia (cioè libertà accademica) e di responsabilità sociale (art. 97 della Costituzione, cioè a dire concorso universitario pubblico), in modo tale da avere anche un un equilibrio nel processo di co-decisione. Una governance bilanciata previene infatti l’abuso da parte di chi detiene il potere e supporta la cooperazione collettiva tra le risorse.
Il mancato equilibrio nella governance del sistema universitario italiano risale, come detto, alla legge del 1998 e poi, soprattutto, alle modifiche introdotte dalla Legge Gelmini, che hanno attribuito al Rettore un potere smisurato. Egli è membro del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione contemporaneamente (un'assurdità!), a lui sono attribuite la rappresentanza legale dell'Università, le funzioni di programmazione economica e di bilancio, di approvare regolamenti e statuti, di indirizzo, iniziativa e coordinamento delle attività scientifiche e didattiche, di efficienza, nonché di prevedere sanzioni disciplinari a docenti e studenti, di nominare il direttore generale e i membri del CdA. Come ben capite si tratta di funzioni da despota assoluto, che non hanno eguali in nessun'altra università del mondo.
Questa verticalizzazione del potere (cioè a dire il rafforzamento del ruolo del Rettore, del Direttore Generale e del Consiglio di Amministrazione), lungi dall'essere un aspetto di bilanciamento della governance si alimenta secondo meccanismi deviati e rafforza ancor più il potere delle lobbies accademiche più affamate e pericolose: il Rettore, infatti, viene eletto sulla base dell'appoggio politico e del voto di scambio degli stessi docenti, in cambio della promessa di concorsi pilotati e predeterminati e di avanzamenti di carriera “blindati”. Come hanno messo in evidenza, in modo chiaro e inequivocabile, alcune inchieste delle procure (in particolare quella di Catania, denominata “Università bandita”), il Rettore e i direttori di Dipartimento arrivano a decidere arbitrariamente, in molti casi trasgredendo platealmente la legge, e a predeterminare tutti gli aspetti della vita economica e sociale dell'Ateneo di riferimento, proprio perché non esistono, se non formalmente e con un ruolo meramente ornamentale, veri organi di controllo esterni (Ministero) e interno (Collegio dei revisori dei conti). Se considerate che i revisori dei conti non svolgono alcune reale attività di contenimento delle spese (in particolare sugli appalti alle ditte, sui bandi e sul reclutamento del personale), se tenete conto che il Senato Accademico di ogni Ateneo è sempre formato da una maggioranza che è la stessa che ha portato all'elezione del Rettore e che si spartisce tutto, capite bene come la vita quotidiana accademica sia tutt'altro che democratica e aperta al confronto e alla critica. Anzi, ogni richiesta di accesso agli atti nelle procedure e ogni richiamo alla trasparenza viene vista dai vertici come una invasione di campo e contrastata con ogni mezzo, complice il silenzio generale dei docenti omertosi (comunque la maggioranza).
Ecco la ragione per cui è necessaria e assolutamente imprescindibile una riforma complessiva e radicale dell'elezione degli organi di vertice degli atenei italiani, in particolare del Rettore.
La mia proposta è quella di rendere l'elezione della carica del Rettore quanto più aperta e democratica possibile, a fronte di un attuale meccanismo di elezione assolutamente feudale, anacronistico e oligarchico perché prevede il diritto di voto con prevalenza assoluta da parte dei soli docenti ordinari e associati cioè degli strutturati, escludendo tutte le altre categorie che portano avanti sulle loro spalle, con enormi sacrifici e in condizioni spesso precarie, l'attività universitaria.
Il punto è che la legge ministeriale non entra nel dettaglio dei meccanismi di elezione, lasciando ad ogni singola istituzione - sempre per colpa della maledetta ottica della cosiddetta “autonomia” universitaria - il compito di stabilire, attraverso il proprio regolamento interno, le norme per individuare l'elezione del vertice accademico. Ed ecco che dal cilindro, nella più rosea tradizione di oligarchia deviata a fini personalistici ma attraverso l'utilizzo di risorse pubbliche, il mondo accademico ha tirato fuori la regola del cosiddetto “voto ponderdato”.
Di cosa si tratta? Di un meccanismo medievale che assegna un voto intero solamente al corpo docente mentre dimezza anzi riduce di un quinto, a volte perfino di più, il voto delle altre categorie universitarie. Ad esempio, nel caso dell'Ateneo di Catania, assegna il 20% appena del valore di ogni singolo voto al personale tecnico-amministrativo, oppure nel caso dell'Ateneo di Padova, assegna il 2% al voto di dottorandi e assegnisti, oppure nel caso dell'Ateneo di Messina, assegna appena il 30% al singolo voto, nientemeno, che dei ricercatori universitari.
Come ben capite, un vero obbrobrio, che penalizza di gran lunga i docenti a contratto e i ricercatori, cioè l'asse portante dell'attività didattica e di ricerca degli atenei, che penalizza il personale tecnico-amministrativo che rappresenta un nucleo fondante dell'attività organizzativa universitaria, e soprattutto depotenziando, in assoluto, gli studenti che sono la vera asse portante della vita universitaria, che peraltro, pagando le tasse, mantengono in vita le strutture. A questi ultimi è attribuito un peso di voto assolutamente risibile, per non dire ridicolo: a fronte di decine di migliaia di iscritti, votano solo i pochi rappresentanti degli studenti. Un'assurdità.
È necessario, dunque, al più presto, prevedere un meccanismo di elezione del Rettore fondato sulla ripartizione equa dei voti divisa in quattro tronconi, ma con il principio di un voto ogni singola persona, uguale per tutti e senza differenziazioni di peso sul voto: 1) classe docente strutturata; 2) classe docente non strutturata; 3) personale tecnico-amministrativo; 4) classe studentesca. Tutti ugualmente votanti allo stesso modo ed in modo democratico e paritario. In aggiunta, per rendere il meccanismo di voto corroborato da parametri di merito e competenze specifiche che non possono prescindere dai curricula, dall'esperienza manageriale e di organizzazione e direzione di gruppi di ricerca comprovata – come una sorta di concorso a tutti gli effetti riservato ai dirigenti della pubblica amministrazione – va previsto un sistema di pre-requisiti per poter entrare nella rosa dei candidati a Rettore, eliminando il divieto di candidatura esclusiva per i docenti ordinari. Oggigiorno ci sono professori associati più giovani che hanno un curriculum ed esperienze di lavoro e progetti internazionali molto più solidi e competitivi di tanti docenti del gradino superiore. Un motivo in più per eliminare questa insensata distinzione e creare un ruolo unico della docenza universitaria.
Sarebbe, come ben capite, una vera e propria rivoluzione della governance degli atenei italiani che permetterebbe una maggiore democrazia e trasparenza, un più consono equilibrio tra le componenti universitarie e, allo stesso tempo, che permetterebbe delle maggiori forme di garanzia rispetto alla dirimente questione del reclutamento della classe accademica."
Giambattista Scirè
*Storico, Amministratore e responsabile scientifico di “Trasparenza e Merito. L'Università che vogliamo”
Leggi l'articolo integrale del 20 ottobre 2020 sul sito di "Micromega"
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