Le modifiche del reclutamento non intervengono sui punti deboli dei nostri atenei. Dove i baroni continuano ad avere pieno potere. Una riforma del tutto deludente su precarietà, merito e trasparenza. Il commento di Giambattista Scirè, Amministratore e Responsabile scientifico di Trasparenza e Merito, sul settimanale "L'Espresso", nell'ambito di una inchiesta riguardante la permanente precarietà dei giovani all'università. La posizione dell'associazione sulla cosiddetta "riforma" del reclutamento universitario, introdotta dalla Ministra Messa e dal Governo con l'articolo 14 del decreto legge 36/2022. Il confronto, impietoso, con i punti proposti dal "decalogo" di Tra-Me pubblicato sul sito e nel libro Mala università.
"Lo spessore culturale di una riforma universitaria si misura su tre elementi: l'impatto delle modifiche sull'attuale sistema di reclutamento, la prospettiva di lungo periodo e le modalità di stesura del testo, ovvero il coinvolgimento dei protagonisti in causa. Purtroppo in ognuno di questi aspetti il giudizio non può che essere negativo.
L'impatto sulle modifiche ai gruppi e settori scientifico-disciplinari, ai contratti di ricerca e alla disciplina sui ricercatori universitari è irrisorio, anche perché ogni articolo è vago e rimanda a disposizioni transitorie che avranno esecuzione non si sa bene quando. La prospettiva risulta avere il fiato corto perché affronta punti non dirimenti, dimostrando di guardare il dito e non la luna. Si pensi all'assenza di interventi per reclutare secondo il vero fabbisogno (di ricerca e didattica) di un ateneo e strumenti di controllo e garanzia, commissariamento e sanzioni (per atenei e docenti), rispetto a comportamenti non etici, spesso illegali. Il mancato coinvolgimento delle parti e la frettolosa approvazione della riforma, sottratta al normale iter parlamentare, finiscono con lo scontentare praticamente tutti.
Entriamo nel merito degli interventi messi in atto, partendo dalla mancata ricezione dei punti del decalogo di Trasparenza e Merito.
Punto 3: "Eliminare tutte le figure precarie e istituire una sola forma di ricercatore in ingresso e un ruolo unico della docenza universitaria, senza differenziazione tra ordinari e associati, diminuendo le procedure e gli avanzamenti di carriera, cioè le occasioni di scambio di favori e corruzione, in forma di concorso ad personam”.
In realtà il testo di riforma non istituisce il ruolo unico della docenza e lascia inalterate quasi tutte le figure precarie, salvo eliminare l'assegnista di ricerca, introducendo un contrattista di ricerca altrettanto precario e definito in termini di contrattazione collettiva, dunque paragonabile al personale amministrativo, e predispone un unico ruolo di ricercatore a tempo determinato, aumentando, anziché diminuire, la sua precarietà. Precarietà vuol dire fedeltà, dunque mantenimento dello “status quo”.
Punti 4-5: "Cancellare i concorsi locali in cui proliferano le clientele, istituire un concorso nazionale con commissioni interamente sorteggiate sul totale dei docenti, predisporre criteri di valutazione su una griglia ministeriale, garantire la massima trasparenza delle procedure con la pubblicazione dei verbali (cda, senato, concorsi). Nel caso di mantenimento forzato dei concorsi locali, vietare almeno la partecipazione in commissioni ai docenti dell’ateneo che bandisce la procedura, vietare che il commissario sia in conflitto di interessi con il candidato che deve valutare”.
In realtà, nel testo della riforma, i concorsi locali non solo vengono mantenuti, ma viene confermato il “membro interno” che decide l'esito (il “deus ex machina” del concorso, così come il rettore è il dittatore dell'università), così il potere baronale non solo è salvo, ma si consolida attraverso la cooptazione clientelare, mentre con la rosa prevista dei tre “idonei”, anziché il classico vincitore, si aumenta il potere di arbitrio dei direttori di dipartimento, cioè dei gruppi di potere che condizionano la vita degli atenei in modo incontrollato e autoreferenziale, e sarà più difficile il ricorso al tribunale amministrativo e alle indagini della magistratura.
Si è sentito parlare, nei giorni scorsi, di impatto del merito e di una valutazione qualitativa con il riconoscimento tramite premialità, nonché di eliminazione delle commissioni di Abilitazione scientifica nazionale con l'istituzione di una certificazione quantitativa, attraverso un controllo automatizzato (per parole chiavi). In realtà si è poi scoperto che si trattava di slide fornite dopo un incontro della Ministra con la Conferenza dei rettori (Crui), di cui non si trova traccia nel testo approvato.
Basterebbe guardare a paesi come Australia, Svezia, Olanda, Austria che sanno bene come l'università non possa essere gestita dai soli docenti. Predisporre controlli di magistratura, revisori contabili, ispettori ministeriali. Organizzare la “governance” in modo non oligarchico ma democratico. In tal caso sì che si tratterebbe di una vera università intesa come bene pubblico e non l'attuale “postificio” accademico, feudo di privilegi che rimangono ad oggi inalterati."
Giambattista Scirè è saggista e storico, autore del libro “Mala università” e amministratore e Responsabile scientifico di “Trasparenza e Merito. L'Università che vogliamo”
Leggi l'articolo su "L'Espresso" del 5 luglio 2022
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